PAOLO TERLIZZI

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Transhumance w/ Althia – Radio Raheem Milano
Joseph Narangio presenta il progetto “19:35 – A QUARANT’ANNI DAL TERREMOTO”.
Una sequenza di brani che descrivono il “prima” e il “poi” del terribile terremoto che sconvolse l’Irpinia il 23 novembre del 1980. Un’opera in divenire, parte di un progetto più ampio che intreccia fotografia, poesia e musica.

Ascolta la registrazione del live su Radio Raheem

19:35

Scarpate di faglia

Visitare questi luoghi di memoria non è stato facile. In alcuni le tracce dell’evento si fondono con il tempo e la natura gioca il ruolo del croupier, mescolando e confondendo le sensazioni, facendole oscillare tra un sereno stupore nell’osservare la natura che si riprende il proprio spazio, e l’angoscia. Mi è capitato spesso di dormire in questi paesi abbandonati, ascoltando la notte, i suoi suoni, il suo silenzio, e di incontrare animali non più abituati alla presenza umana ma diventati con il tempo i nuovi abitanti del posto.
Dormire a un passo da stazioni ferroviarie in stato di abbandono e altre ormai in disuso ma con le comunicazioni generali ancora attive.
Rauche voci registrate che echeggiano nella notte.

Storie di borghi che si spengono lentamente a causa del continuo calo demografico che investe questi luoghi così già duramente colpiti. Sono in molti ad andare via per mancanza di prospettiva a breve termine, senza più casa e senza più lavoro; altri resistono ancorandosi alla speranza di una rinascita.
Chi va via cambia vita, portando con sé ricordi, ma anche amarezza e rassegnazione, lievitate grazie alla complicità della lenta e spesso paradossale macchina politico-burocratica.
Con il tempo, certe formule di sciacallaggio tramandate si sono affinate, creando una vera e propria classe dirigente con tanto di titolo di garanzia professionale. Questi eventi generano un’altra scarpata di faglia, che non è solamente un solco, una separazione del suolo, ma un ulteriore distacco di questo Sud dal Nord. Un distacco che si riflette nell’animo e nello sviluppo di una popolazione già in difficoltà, sgretolando ogni progetto, rendendo velata la visione di un futuro stabile, modificando il territorio e provocando esodi, alcuni immediati e di massa e altri, nel tempo, come conseguenza di scelte di sviluppo economico-territoriali spesso troppo lente, omertose, e nonostante il trascorrere degli anni, ancora ancorate a un sistema feudale.
A pagarne maggiormente lo scotto sono sempre le generazioni più giovani.

Per catapulta delle travi, a cascata –
sfregio diagonale del cedimento –
nello scippo oscillatorio di quel novembre.
M.Russo

La più bella delle stazioni
non trattiene treni: gracchia
annunci al nulla circostante,
trema di transiti indifferenti
lanciati a velocità supersonica.
M.Russo

L’abbandono.

Le case ormai abbandonate da tempo, i vicoli e le strade coperte dal verde, spesso pericolose. Meglio attraversarle con lentezza ed estrema attenzione.

Osservi ogni crepa, ascolti il tuo calpestio, i suoni diventano una guida e i sensi man mano si acuiscono stimolati dalla sensazione di pericolo, quando attraversando l’erba alta senti improvvisamente flettersi una lastra di metallo a copertura di un fosso o di un vecchio pozzo. O quando ti appresti ad affrontare una scala trattenendo il respiro, e quasi ti sembra di sentir dilatare le pupille mentre sbirci furtivo nel buio delle camere spesso pericolanti. O quando, tra le macerie di queste case, troppo spesso carenti di ferro e imbottite di amianto, ti si rivelano frammenti di storie ancora appese ai muri o sparse generosamente sui pavimenti.

Improvvisamente il tuo sguardo, a causa di un anomalo silenzio, si sposta verso l’esterno attraverso una logora finestra senza vetri, planando dolcemente sul paesaggio.

Molto spesso i luoghi che ho visitato e fotografato per questo progetto sono dotati di un fascino atavico, una sensazione che mi avvolge, allontanandomi dalla consapevolezza di quel tempo schiacciato e spezzato dal peso della tragedia. Ogni paese sembra possedere il dono di rallentare il tuo tempo, e i pensieri scorrono fluidi e lenti, i respiri si fanno più profondi, ti senti immerso e capace di vedere e comprendere le ragioni di una bellezza che, spietata e noncurante, avvolge nel suo manto e talvolta stritola ciò che non fa parte della sua natura.

Un’altra sbirciatina regalata. Il vento complice, giocando sadicamente con i tuoi timori, improvvisamente fa scricchiolare una porta al piano superiore, riportandoti a terra.

L’edera medica le crepe,
si incista alla pietra lesa.
Distende i tendini,
dilaga in mille rivoli
di nervi e di vene.
Stritola legno con legno:
lo avvolge, lo sostiene.
M.Russo

Terre di mezzo

L’entroterra Irpino soffre da sempre di isolamento geografico, nonostante l’ammodernamento delle infrastrutture. A causa della morfologia del territorio soggetto a sollecitazione sismica, talvolta risulta ancora complesso raggiungere alcuni di questi siti e i paesi limitrofi.
Il furgone è un ottimo mezzo per attraversare e visitare questi paesi abbandonati, ti permette di dormire e cucinare nelle immediate vicinanze; certo è che tale abitudine prevede una discreta preparazione, soprattutto agli sbalzi termici e ai cambiamenti climatici spesso improvvisi. Non essendo coibentato e anche un pochino datato, il mio furgone è poco adatto ad affrontare queste problematiche meteorologiche; questo solitamente mi spinge a evitare i mesi più difficili.

Per vari motivi non sono stato sempre fedele a questa filosofia, quindi, all’eventualità, bisogna improvvisare e adattarsi al carattere di questa terra. Al calore diurno capace di surriscaldare motore e freni al punto di mandarli in panne, lasciandoti per diverse ore sotto al sole di certe ripide strade di montagna o su lunghe statali piazzate nel bel mezzo dei campi di raccolta, lontani diversi chilometri da qualsiasi forma di riparo, dove molto spesso si vedono gruppi di immigrati morire di lavoro per pochi euro al giorno.
Alla pioggia, al freddo, ma soprattutto all’umidità notturna capace di attraversare la lamiera e condensarsi all’interno del mezzo, avvolgendoti come una coperta ghiacciata. Sono terre bellissime e difficili.

Il terremoto in Irpinia avvenne il 23 novembre del 1980 alle 19:35, alle porte dell’inverno, causando quasi 3.000 morti, 8.500 feriti e 280.000 sfollati.
La ricostruzione è stata descritta come uno dei più grandi atti di sciacallaggio e corruzione ai danni di una popolazione colpita da una tragedia. Spesso tra i paesi abbandonati e i paesi ricostruiti più a valle, si possono trovare ancora diversi bungalow e prefabbricati di cemento e amianto degli anni ’80, ormai logorati dal tempo e pericolosi. Dopo quarant’anni c’è gente che vive ancora lì dentro, in bilico, sospesa, forse perché incapace di lasciar andare il passato o forse perché per anni ha sperato, magari illusa da promesse elettorali o affidandosi alla benevolenza del Signore, di poter riavere la propria vecchia casa.

Gli ultimi clamori si danno alla fuga
lasciando fuochi smorti
e avanzi di bivacchi.
Sul pavimento che ostenta abbandono
il sangue rappreso delle conserve,
l’incuria indifferente che esibisce
chi è rimasto solo.
M.Russo

Nude fino all’osso delle costole
le pelli a brandelli
le pareti, i parati smangiati.
Chi ci ha fatto dentro la tana
beve l’umido delle crepe
sibila un ronzio, bisbiglia
buca la polvere delle orecchie.
Si difende la dimora, il vivente
segno delle spallate della terra.
M.Russo

Padre nostro che sei nei piedi
e nelle mani di chi si aggrappa
alla zattera delle pareti,
Padre mostro d’indifferenza
lava il livido della lotta, il cozzo
degli elementi, fai nascere prati
dal cilicio.
M.Russo

Ho calpestato e frugato
e spesso ho imbrattato di rumore.
Ma non per questo ho imparato
a risalire le piaghe dei muri.
Chiediti che senso può avere
fare come l’edera
che si stira agli scorci di sole
e in punta di foglia sbircia
il silenzio in silenzio.
M.Russo

“TERRA DI NESSUNO”

Da un’intervista al fotografo Paolo Terlizzi
A cura di Sarah Lanzoni

19:35

“Una sera, a cena, nel riaffiorare di ricordi d’infanzia – quelli che solo il tempo colloca nel suo giusto significato e aiuta a focalizzare – si parlava di luoghi, colori e silenzi, della natura, di quella umana, soprattutto, della consapevolezza della sua caducità, della falsa convinzione di sentirsi padroni del proprio destino e del proprio tempo, di come ogni possesso e ogni certezza possano svanire in un attimo.”

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